Di quest’ultimo aspetto si sono fatte carico le istituzioni europee, con diverse azioni, tra le quali spicca l’adozione con il Regolamento (UE) 2016/2067 del nuovo principio contabile IFRS n. 9 (International financial reporting standard 9). Uno degli aspetti più incisivi del IFRS n. 9 è infatti il cambiamento del modello di impairment ossia del procedimento di verifica delle perdite di valore delle attività iscritte in bilancio. La nuova norma introduce il passaggio da una logica di rilevazione delle perdite manifeste (incurred loss) a quella di previsione ex ante delle perdite attese (expected loss) avendo come riferimento tutto l’arco temporale della vita residua del finanziamento. La norma impone quindi di utilizzare criteri di previsione ex ante delle perdite attese sulla vita residua del finanziamento, incorporando tutte le informazioni disponibili al momento della valutazione del credito incluse quelle di natura anticipatoria (forward looking), informazioni che possono derivare unicamente da un rinnovato rapporto banca-impresa sempre più improntato alla riduzione delle asimmetrie informative (trasparenza).
Il recepimento dei suggerimenti circa la normativa sull’insolvenza è dovuto, invece, necessariamente passare a livello nazionale dalla revisione del diritto fallimentare, tramite l’emanazione del nuovo “Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza” adottato con il Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, destinato a sostituire la Legge Fallimentare del 1942.
Fin dall’approvazione della legge delega, il nuovo Codice della Crisi è stato oggetto di forti critiche ed opposizioni, sull’assunto che molte delle innovazioni avrebbero comportato rilevanti costi aggiuntivi per le imprese. In particolare, oggetto dell’avversione è risultata proprio l’introduzione dell’istituto dei sistemi di allerta, tentativo di rispondere alla carenza nel nostro ordinamento di un sistema di “early warning”. Nonostante un vero e proprio fuoco di fila, fino all’avvento del Covid19, il modello delineato dal nuovo Codice della Crisi aveva resistito insperatamente agli attacchi, cedendo esclusivamente un innalzamento della soglia dimensionale per l’obbligatorietà della nomina dell’organo di controllo societario o del revisore, senza con questo incidere nella sostanza delle previsioni. Eppure, come professionista non potevo che constatare che le imprese pronte all’adeguamento della nuova normativa, pur considerato l’ampio termine concesso dal legislatore, erano una sparuta e trascurabile minoranza, a dimostrazione di quanto il corpo imprenditoriale fosse refrattario al cambiamento.
Tale antagonismo era verosimilmente fomentato dal blocco irrigidito delle imprese zombie, che si sentivano giustamente minacciate e accerchiate internamente (per via dei sistemi di allerta) ed esternamente (grazie alle nuove regole dell’impairment nel mondo bancario).
La pandemia da SARS-CoV-2 (Covid19) è stata l’occasione perché quel gruppo di pressione che in precedenza aveva fallito nell’osteggiare la nuova normativa, tornasse alla carica ottenendo infine l’integrale rinvio dell’entrata in vigore del Codice della Crisi dal 15 agosto 2020 al 1° settembre 2021 (art. 5 del Decreto Liquidità). Tale soluzione è stata in generale autorevolmente salutata come una scelta opportuna e necessitata dal momento di grave difficoltà socio economica che attraversa il Paese. Tuttavia proprio in un momento come questo, ove ingenti risorse pubbliche verranno stanziate in favore del mondo imprenditoriale, sarebbe stato utile disporre di un sistema in grado di aiutare nella distinzione tra i soggetti meritevoli di sostegno e quelli da accompagnare in un percorso destinato a liberare risorse “imprigionate”.
Se l’intento era quello di non appesantire un tessuto imprenditoriale già sofferente con una riforma di tale portata e di consentire l’utilizzo in questo peculiare frangente di strumenti “già ampiamente testati”, bisogna rilevare che il rinvio al 21 settembre 2021 potrebbe comunque mancare il segno. La percezione ad oggi è che gli effetti economici della pandemia non saranno di così breve durata, anche nell’ipotesi ottimistica (e per nulla apparente) di una cessazione immediata dell’emergenza sanitaria.
A ciò si aggiunga che l’art. 10 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 (come confermato dalla legge di conversione 5 giugno 2020, n. 40) ha determinato l’improcedibilità delle istanze per la dichiarazione di fallimento a ove i ricorsi siano stati depositati tra il 9 marzo e il 30 giugno 2020. Considerando la ben nota lentezza dell’emersione delle situazioni di dissesto economico finanziario delle imprese in Italia, difficilmente si può immaginare che tale provvedimento riguardi soggetti che non fossero già in stato di crisi prima e a prescindere dalla pandemia.
Possiamo dire che sia stato quindi concesso un generale periodo di grazia, durante il quale imprese intrinsecamente decotte sono da un lato diventate destinatarie di sovvenzioni adibite a mitigare gli effetti della pandemia e dall’altro, con il progressivo deteriorarsi della salute complessiva delle imprese, potranno meglio “mimetizzarsi” tra i soggetti colpiti dall’emergenza sanitaria, approfittando di una lunga notte dove tutte le imprese, zombie o sane che siano, sembrano grigie.